Facebook sotto attacco. E non sono gli hacker! - Hydrogen Code
marzo 26, 2018

Fa riflettere la reazione del mondo alla scoperta che Facebook accumula dati sui suoi utenti e consente agli altri di usarli. Da un giorno all’altro, sembra che gli utenti abbiano realizzato che Facebook accumula dati sui suoi utenti e li utilizza a scopi commerciali. Di botto, il mondo intero scopre che una piattaforma che permette di condividere opinioni, selfie e stati d’animo con tanto di geolocalizzazione potrebbe essere usati per scopi pubblicitari. Addirittura, che chiunque può accedere a questi dati semplicemente investendo dei soldi sugli strumenti pubblicitari offerti dell’azienda. Dopo anni finalmente si scopre che Zuckerberg non è un generoso mecenate bensì uno che coi dati che immagazzina ci fa un business miliardari. 

Nonostante l’ovvietà, la notizia ha fatto più scalpore del dovuto e – inevitabilmente – gli strascichi iniziano a essere pesanti per la piattaforma di Zuckerberg che ora si trova ad affrontare class action, accuse di spiare anche gli SMS degli utenti Android (subito smentite) e attacchi da ogni dove. Magari dalla stessa gente che sino a poco tempo fa faceva lo stesso: quando Obama vinse le elezioni – vantandosi di aver saputo sfruttare bene i social – tutto era splendido. Oggi che al potere c’è il suo “avversario”, sfruttare (legalmente, sia chiaro) a scopi politici i dati diventa manipolazione. 

Zuckerberg, al contrario di quanto avrebbero fatto personaggi più combattivi e carismatici, ha preferito usare una particolare strategia per difendersi. Chiedere scusa, riconoscere l’errore (che forse non c’è, a ben vedere, perché già da anni è stato cambiato il modo in cui si potevano carpire dati – legalmente – tramite l’Open Graph) e addirittura comprare pagine sui quotidiani dove si cosparge il capo di cenere. Come mai? Il motivo è semplice: Facebook è in crisi da tempo. Certo, macina denaro come non ci fosse un domani e ha convinto quasi un terzo della popolazione mondiali a iscriversi alla piattaforma. Peccato che, rispetto all’inizio, la gente abbia iniziato a farsi furba, a capire come funziona la privacy e a cedere sempre meno informazioni personali.
Chi ha meno di 25 anni probabilmente non apre più il profilo Facebook, esattamente come nessuno apre più la vecchia mail creata con Yahoo tanti anni fa e sostituita da servizi migliori. In generale, chi è rimasto su Facebook ha imparato a limitare la privacy dei suoi post, a non accettare più le richieste di amicizia da profili la cui foto mostrava giovanissime e procaci ragazze russe. L’engagement era in discesa da tempo, tanto che Zuckerberg aveva annunciato un radicale  cambio di rotta a dicembre, quel Family First che avrebbe distrutto la visibilità organica delle pagine, pur di favorire i rapporti personali, pur di convincere la gente a offrire i dati che ormai non condivideva più, non su questa piattaforma. Tanto che per risollevarla si può pensare di ripensarla radicalmente, anche a costo di sconfessare quanto fatto finora.

Facebook oggi è come un elefante vecchio e malaticcio sul quale si stanno accanendo i suoi avversari e, soprattutto, i media. Gli stessi media che a Zuckerberg hanno venduto l’anima in cambio della visibilità e che poi hanno reagito male quanto gli è stato presentato il conto, sempre più salato, per continuare a godere di tanta esposizione. Gli stessi media che, a seconda dei risultati elettorali, lo definiscono o Sacro Graal o creazione del demonio.

Alla fine, per Zuckerberg il vero dramma non sono le accuse che gli si muovono, ma il fatto che arrivino nel momento peggiore, quando Facebook ha iniziato ad annoiare. Fortuna – per Mark –  che da un lato c’è Instagram che continua a prendere piede e dall’altro Youtube che inizia a creare scontenti fra i creatori e gli inserzionisti. Tanto, nel giro di qualche mese, gli strali dei media saranno rivolti altrove e della privacy non parlerà più nessuno. Non fino alle prossime elezioni USA, per lo meno.